Si è concluso il 17 gennaio il Salone internazionale dell’alta orologeria, annuale appuntamento ginevrino per una selezione delle migliori Case di orologeria.
Questo appuntamento è normalmente dedicato alla presentazione di nuovi modelli da parte delle Case, in una sfida tra eccellenze che è una vera delizia per gli occhi degli operatori specializzati invitati per programmare gli acquisti per l’intero anno a venire, ma in questo 2019 la sensazione che ho provato è stata ben diversa rispetto al passato, perché si respirava chiaramente una diversa aria, come se non fosse tanto l’orologio il focus del salone, quanto invece le strategie commerciali che alcuni “player” del mercato intendono adottare da ora in avanti.
Come ben sappiamo la maggior parte dei Brands di orologeria appartiene a pochi grandi gruppi finanziari quali LVMH, Kering, Swatch Group e Richemont, inevitabilmente la logica che guida le scelte della finanza internazionale ha sempre condizionato le scelte commerciali dei Brands, ma in ogni caso finanza e commercio hanno seguito una unica direzione di miglioramento del prodotto e, di pari passo, miglioramento dello standard della distribuzione sul territorio, anello finale di congiunzione tra il produttore ed il cliente finale, in una sinergia che, in fin dei conti, ha giovato ad entrambi, e, sopratutto all’appassionato cliente finale che ha goduto, nelle città capoluogo, di un’ampia scelta di prodotti di orologeria di alto livello con il conforto dell’expertise e del trattamento di giusto riguardo da parte del negoziante di fiducia.
Ma oggi i top manager della finanza internazionale (non tutti, per fortuna) intravedono la possibilità di fare a meno della rete distributiva sul territorio, perché l’avvento dell’e-commerce potrebbe permettere ai Brands di vendere direttamente al cliente finale senza l’Intermediazione del rivenditore di zona; naturalmente le Case venderebbero solo tramite i loro portali diretti ed esclusivamente a prezzo pieno, decisamente un business allettante per i proprietari dei Brands, e questa visione fa per la prima volta divergere in maniera radicale la finanza ed il commercio, almeno quello tradizionale, che, fino a prova contraria, ha portato i Brands (tutti, nessuno escluso) ad essere quello che sono oggi per percepito da parte dei clienti e per conseguenti quote di mercato acquisite.
Proprio in questa edizione del SIHH si sono chiaramente delineate le strategie future di alcuni grandi Brands come Audemars Piguet e Cartier: la prima ha annunciato che nell’arco di tre-cinque anni uscirà totalmente dalla distribuzione tradizionale per occuparsi in maniera diretta della distribuzione dei suoi orologi, la seconda non lo ha annunciato ma di fatto ha iniziato un piano di chiusure brutale di molti rivenditori, che non si sa fino a dove si spingerà e tale politica potrebbe essere a breve applicata anche alla distribuzione delle altre marche del gruppo Richemont, di cui Cartier fa parte.
La prima considerazione che faccio è che se forse per Audemars Piguet, caratterizzata da una produzione limitata a poche migliaia di pezzi all’anno e da una distribuzione già molto limitata nei numeri, può essere comprensibile pensare di accentrare tutto nelle proprie mani, di certo risulta poco comprensibile per i Brands del gruppo Richemont, che comunque producono, l’uno per l’altro, svariate centinaia di migliaia di pezzi all’anno e che hanno sempre visto nella distribuzione ben calibrata un vero punto di forza.
La seconda considerazione che faccio è più profonda e di fatto fagocita ed annulla la prima: eliminare dalla propria rete tantissimi partners di qualità, immagine, professionalità riconosciuta e finanziariamente affidabili (mettendo molti di questi in grandi difficoltà, non avendo più prodotti da vendere ai propri clienti) per la brama di guadagnare tutto per se è una operazione eticamente corretta?
Certamente no, soprattutto in considerazione del fatto che per tutte, e sottolineo TUTTE, le marche che sono al centro di questa nuova strategia, il percepito da parte dei clienti è soprattutto frutto del lavoro dei distributori finali, che hanno da molti anni investito risorse economiche e spazi nei propri negozi, di certo per fare business per se stessi, ma anche a grande beneficio delle Marche, le quali hanno sempre gestito gli invii di prodotti a loro piacimento, imponendo ai rivenditori gli assortimenti minimi da tenere in negozio ed i budget annuali da raggiungere, spesso assai impegnativi per i rivenditori, comportamento che è la principale causa del fenomeno della scontistica diffusa e del diffondersi del cosiddetto “grey market” per la gran parte dei prodotti invenduti negli stock; addirittura grottesco l’atteggiamento di uno di questi Brand, che poco meno di 36 mesi fa (non 36 anni, 36 mesi!) “caldeggiava” ai propri dealers una presenza in negozio di spazi dedicati al marchio con i propri bellissimi (e costosissimi) corners, chi non si adeguava era “fuori”. Lo stesso Brand oggi non rinnova il contratto di distribuzione alla gran parte degli stessi rivenditori che tali corners gli hanno dedicato, un vero capolavoro di coerenza e buona fede commerciale; se questi Brands sono dove sono adesso non lo devono esclusivamente alle accresciute qualità dei loro orologi prodotti negli ultimi anni, ma anche al grande impegno ed alle capacità dei rivenditori, perché solo uno sparuto numero di orologi può vantare qualità proprie tali da potersi definire “autovendente” e tra l’altro, tra questi pochi, la maggior parte di essi sono prodotti dalla Rolex, Casa che si guarda bene dal maltrattare i propri rivenditori autorizzati.
Ma la considerazione etica è pura accademia, di questi tempi, si potrebbe dire risibile romanticheria; e quindi faccio una ulteriore considerazione di carattere pratico: le Case che hanno adottato questa scelta possono solo perderci, perché i canali dell’e-commerce e della vendita diretta nelle proprie boutiques monomarca, non potrà mai colmare il gap con la quantità e qualità di vendita tramite la rete di rivenditori autorizzati, per tante ragioni il sistema di vendita più efficace che esiste nel settore dell’orologeria e gioielleria. Solo uno stolto non si rende conto di quale forza di penetrazione sui mercati di riferimento può avere un venditore che cura il business suo e della sua famiglia, spesso con tradizione plurigenerazionale, quale capacità di argomentare prodotti e marchi ha chi vi ha investito i propri capitali oltre che la propria passione, niente di simile potrà offrire ai Brands nessun commesso di boutique diretta (con tutto il rispetto dovuto) e tanto meno un portale e-commerce. In sostanza si tratta di una operazione tutta sbagliata, commercialmente ed eticamente parlando, un comportamento sconcertante nei confronti di affidabili partner commerciali che hanno fatto sempre e che ancora farebbero in futuro il bene di queste aziende, il tutto per massimizzare gli utili, ma senza nessuna certezza di raggiungere il risultato sperato; alla base di tutto questo c’è solo la presunzione e l’arroganza di chi pensa che la forza del proprio Marchio sia tale da poter fare a meno della tradizionale rete di distribuzione.
Che dire, in conclusione di questo lungo post? Che l’orologio, inteso come strumento di micromeccanica ed oggetto di passione, ed il cliente finale, che proprio grazie a quella passione arriva a decidere di acquistare uno o più orologi di qualità, non sono oggi al centro dell’attenzione di chi dirige alcune case orologiaie.
Il focus è sul plusvalore economico derivante dalla vendita degli orologi, da massimizzare in maniera estrema. Situazione pericolosa per chi sta adoperando queste scelte, già in altri settori produttivi, in passato, chi ha messo al centro della sua attenzione la finanza, mettendo in secondo piano l’attenzione al prodotto ed all’assistenza al cliente finale, ne ha pagato dure conseguenze, si pensi all’industria dell’auto, al gruppo Fiat negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, che perdeva competitività sui mercati a vantaggio di chi, come i produttori tedeschi invece, puntavano sempre tutto sui prodotti e sulla rete di distribuzione ed assistenza sempre più diffusa e professionale.
Il futuro è tutto da decifrare e da scrivere, ma la conoscenza della storia passata ed il buonsenso aiutano sempre ad operare le scelte migliori possibili; mi pare, per il momento, di vedere ben poca conoscenza della storia ed ancora meno buonsenso, per cui non resta che attendere che i risultati di queste scelte facciano chiarezza su quale sia la direzione giusta da seguire: profitto esclusivo dei Brands o partnership forte con la distribuzione di qualità? Cosa sia meglio per il cliente finale credo sia ovvio, ai posteri l’ardua sentenza.